La giustizia europea è chiamata a pronunciarsi sulle prestazioni sociali che uno Stato deve garantire ai cittadini dell’Unione che si spostano per cercare lavoro.

La causa è complessa e parte da una recente sentenza della Corte di Giustizia, in cui questa ha dichiarato che gli Stati membri possono escludere dal beneficio di prestazioni di assistenza sociale i cittadini dell’Unione che arrivino sul loro territorio senza volontà di trovarvi un lavoro. In una nuova causa, la Corte deve chiarire se queste prestazioni possano essere rifiutate anche a un cittadino dell’Unione che cerchi lavoro in uno stato dopo averci già lavorato per un certo periodo.

Nelle sue conclusioni odierne, l’avvocato generale Melchior Wathelet parte dal presupposto che le prestazioni controverse mirino (perlomeno in maniera preponderante) a garantire i mezzi di sussistenza necessari a condurre un’esistenza conforme alla dignità umana; ne consegue che tali prestazioni devono essere qualificate come prestazioni di assistenza sociale ai sensi della direttiva «cittadinanza dell’Unione». Per l’avvocato vanno distinte tre ipotesi diverse, che portano a diverse soluzioni. Un cittadino di uno Stato membro che si rechi sul territorio di un altro Stato e che vi soggiorni (da meno di tre mesi ovvero da più di tre mesi) senza l’obiettivo di ricercarvi un lavoro può legittimamente essere escluso dalle prestazioni di assistenza sociale per preservare l’equilibrio finanziario del sistema di assistenza sociale nazionale; questa esclusione – prosegue l’avvocato – è legittima anche per il cittadino di uno Stato che rechi in un altro Stato al fine di cercare lavoro. Diversa invece la terza ipotesi: per l’avvocato generale le prestazioni sociali non possono essere automaticamente rifiutate al cittadino di uno Stato che soggiorni da più di tre mesi sul territorio di un altro Stato e che ivi abbia svolto un’attività lavorativa.

La qualità di lavoratore, spiega ancora, può essere persa dopo sei mesi di disoccupazione, quando si è lavorato per meno di un anno (come è il caso della famiglia del caso) ma, spiega l’avvocato, “escludere automaticamente un cittadino dell’Unione dal beneficio di prestazioni di assistenza sociale quali quelle controverse, al di là di un periodo di sei mesi di disoccupazione involontaria, dopo un’attività professionale inferiore ad un anno, senza autorizzarlo a dimostrare il suo collegamento reale con lo Stato membro ospitante, contrasta con il principio di uguaglianza”. L’esistenza di questo collegamento risulta dunque dalla ricerca effettiva di un lavoro e da altri elementi, come la scolarità dei figli. L’avvocato sottolinea dunque che qualora risulti dimostrato che due dei figli siano regolarmente scolarizzati in un istituto situato in Germania, essi sono titolari, unitamente alla madre, di un diritto di soggiorno sul territorio tedesco in virtù del diritto dell’Unione.

“Infatti, – spiega l’avvocato generale – i figli di un cittadino di uno Stato membro che lavori o abbia lavorato nello Stato membro ospitante e il genitore che ne abbia l’effettivo affidamento possono avvalersi, in quest’ultimo Stato, di un diritto di soggiorno per il semplice fatto che il diritto dell’Unione conferisce loro un diritto di accesso all’istruzione”. L’esclusione dalle prestazioni di assistenza sociale, prevista dalla normativa tedesca, non risulterebbe applicabile alla madre e ai due figli minori.

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