Nell’anno dell’Expo, un’indagine controcorrente per raccontare l’origine dello sfruttamento e del caporalato nel settore agricolo, in particolare nel comparto della raccolta delle arance in Sicilia e Calabria. Un’indagine che va oltre i noti reportage che documentano il fenomeno nel periodo di massima urgenza e si interroga sulle motivazioni che ne sono alla base ritrovandole principalmente nella assoluta mancanza di trasparenza della filiera. Si intitola, infatti, “#FilieraSporca. Gli invisibili dell’arancia e lo sfruttamento in agricoltura nell’anno dell’Expo” ed é il lavoro di analisi condotto congiuntamente dalle associazioni “daSud”, “Terra! Onlus” e “Terrelibere.org” che lo hanno presentato questo mattina nel corso di una conferenza stampa.

Nel report conclusivo si prova a ricostruire tutti i passaggi che portano il prodotto raccolto dall’albero fino al consumatore finale, mettendo in evidenza che i punti oscuri sono tanti e per questo non si puó “nutrire il pianeta”, come recita lo slogan di Expo sfruttando il lavoro e l’agricoltura.

La scelta di indagare la filiera degli agrumi nasce dal fatto che essa, forse piú di altre, si compone di innumerevoli passaggi, quasi mai trasparenti. “Il cuore della filiera é un ceto di intermediari che accumula ricchezza, organizza le raccolte usando i caporali, determina il prezzo, impoverisce i piccoli produttori, acquista i loro terreni e causa la povertá dei migranti negando loro un’accoglienza dignitosa”, denuncia Antonello Mangano, curatore del rapporto.

Di quanti stadi sia composta la filiera delle arance in Italia é presto detto. Al primo posto troviamo gli operatori della grande distribuzione e le grandi aziende; quindi grandi e medi commercianti; infine medi e piccoli produttori; all’ultimo livello i braccianti, quasi sempre migranti. Le informazioni disponibili per ciascuno di questi soggetti sono scarse o nulle. Non sappiamo dove va a finire il prodotto né tantomeno se sia stato raccolto in condizioni di lavoro soggette a sfruttamento. Quanti consumatori sarebbero allora disposti a comprare un prodotto frutto dello sfruttamento del lavoro? Probabilmente pochi, visto che da un sondaggio del Ministero per le Politiche Agricole emerge che il 71% degli italiani sarebbero favorevoli ad un etichetta eticamente trasparente che certifichi il prodotto anche sotto il profilo etico, quindi. L’indagine svolta dalle tre associazioni ha coinvolto anche alcuni grandi marchi della distribuzione e della produzione, in particolare Coop, Coca Cola e Nestlé al fine di valutarne l’impegno nella lotta al lavoro nero e verso una maggiore trasparenza della filiera a cui si appoggiano. Coca Cola ha risposto fornendo di sua spontanea volontá la lista dei suoi fornitori italiani, Coop ha descritto i meccanismi messi in atto per contrastare le irregolaritá, mentre Nestlé non ha fornito nessuna informazione in nome della privacy.

“Con la nostra campagna”, specifica Lorenzo Misuraca, di “daSud”, “vogliamo fare in modo che per le aziende e la politica diventi piú conveniente avviare percorsi virtuosi piuttosto che chiudere gli occhi sulla schiavitú nelle campagne italiane”. L’indicazione di provenienza é un’informazione necessaria ma non sufficiente quindi, per avere piú trasparenza bisognerebbe probabilmente introdurre qualcosa di simile ad un albo pubblico dei fornitori. Probabilmente stiamo vendendo nel modo sbagliato il nostro made in Italy agricolo, se non apriamo una discussione anche istituzionale e politica su questi argomenti!!

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